Simona Atzori e la fiducia nella vita, oltre il dolore

Scritto da Alessandra Cicalini il 22-10-2014


Intervista di Alessandra Cicalini 

Intelligenza e cuore: nella vita ci vogliono entrambi, ma solo le persone dotate di grande buonsenso se ne servono e basta, senza starci troppo a pensare. Della centralità di questi due semplici principi, Simona Atzori, ballerina-coreografa dal sangue sardo-lombardo, pittrice provetta nonché esperta di coaching motivazionale, doveva essere, in cuor suo, già consapevole, vista la straordinaria educazione ricevuta.

Eppure, per comprendere appieno quanto fossero essenziali per il suo futuro è dovuta passare attraverso il lutto più grave per quasi tutti noi: la perdita della madre, avvenuta la vigilia del Natale di due anni fa. A mamma Tonina Simona ha dedicato il suo secondo libro Dopo di te, uscito a fine settembre. La specialità dell’esperienza che vi è contenuta va ben al di là del fatto dell’essere stata scritta da una giovane donna le cui braccia sono rimaste in cielo al momento della nascita, come la medesima ha raccontato in Cosa ti manca per essere felice?, il suo esordio letterario.

Simona spiega infatti chiaramente come non ci sia età né condizione psico-fisica che meglio di altre ci sappiano dare la ricetta giusta per affrontare la sofferenza e la morte di qualcuno che ci è molto caro e non è certo la sua disabilità, precisa ancora, a rendere il proprio cordoglio più drammatico di quello vissuto dagli altri.

Perché tradurlo su carta, allora? Per se stessa innanzitutto, precisa ancora Simona, ma anche per chi, leggendo le sue parole, oltre che guardandone il travolgente sorriso e gli occhi luccicanti, potrebbe imparare, come hanno dovuto fare, ciascuno a suo modo, anche sua sorella Gioia e suo papà Vitalino, ad “attraversare il dolore”. Del significato di quest’ultima espressione di molto altro la ballerina-scrittrice ha parlato nell’intervista che segue. Buona lettura.

Innanzitutto una confessione: ho scoperto per caso il tuo libro e, avendo perso anch’io da poco la mamma, ho pensato di intervistarti.

Ti ringrazio per avermelo detto.

Grazie a te… So che conduci molti incontri motivazionali: Dopo di te si inserisce anche in questo nuovo percorso che sta prendendo la tua carriera?

In un certo senso sì, anche se non avrei mai pensato qualche anno fa di diventare un coach in senso proprio: in genere, chi fa questo mestiere utilizza tecniche motivazionali standard. Io invece ho cominciato semplicemente parlando della mia vita in vari incontri pubblici. Da lì è nato il mio primo libro, che inizialmente consideravo una specie di backstage della mia vita.

In che senso?

Dopo gli spettacoli, c’era tanta gente che mi voleva conoscere per chiedermi qualcosa di più su di me e così a un certo punto mi sono domandata se raccontando il mio percorso non potessi essere d’aiuto a qualcun altro. Il messaggio che lancio è del tipo “se l’ha fatto lei, perché non potrei farlo pure io?”. Come a dire: io non ho mai usato la scusa della disabilità per fermarmi, per non vivere la mia vita e affrontarla con il sorriso, quindi non farlo neanche tu.

Dove tieni gli incontri motivazionali di solito?

Dappertutto: dalle scuole alle banche. In ogni caso, posso assicurarti che si tratta sempre di uno scambio reciproco: anzi, è più quello che ricevo che quello che do io. Anche perché a me non interessa se ho davanti un manager o uno studente: a me interessa l’energia che circola tra noi e sempre di più me ne sto lasciando trasportare.

Del resto sei una ballerina e una pittrice, due arti in cui l’energia è essenziale: come sei approdata alla scrittura?

Ho sempre scritto anche da ragazzina, in verità, anche se non ho mai tenuto diari, forse per via del mio animo troppo caotico. E tuttavia solo la scrittura, almeno in Dopo di te, poteva aiutarmi ad attraversare il dolore.

Perché?

La danza e la pittura, come del resto qualsiasi forma d’arte, ti permettono anche di celare ciò che senti davvero. Se per esempio io sto ballando un grande dolore, qualcun altro che sta cercando la gioia, potrebbe vederci solo quella. E d’altra parte va bene così, perché l’arte non va spiegata.

Invece la scrittura ti permette comunque di mettere nero su bianco anche ciò che non hai ancora compreso e di metterlo a fuoco solo a partire da quel momento. Considera inoltre che nel libro io mi rivolgo direttamente alla mia mamma, alla quale potevo fare tutto tranne che mentire. Scriverle questa lettera, insomma, mi è servito forse più della pittura e della danza.

Dopo che hai finito di ballare o di dipingere, hai scritto, di solito ti senti svuotata: ti è capitato lo stesso dopo aver finito la lettera per tua mamma?

No. Mi sono invece sentita stanca, soprattutto perché la cosa più difficile per me è stata rileggermi: dopo un certo numero di volte, anzi, ho proprio detto agli editor “basta, mi fido: se ci sono errori, trovateli voi”. E poi mi sono sentita più piena e orgogliosa di me, perché so che la mia mamma è contenta che io abbia scritto questo libro.

Come mai?

Perché lei che amava molto conoscere gli altri, sarebbe stata felicissima di far conoscere la nostra storia e di riviverla attraverso tutte le persone che avranno voglia di leggerla.

Non avevi paura di ferire in qualche maniera tua sorella e tuo padre?

Sì, soprattutto il secondo, visto che ho parlato anche dell’operazione che ha subito. E invece sia mia sorella sia mio papà sono stati felicissimi. Certo, poi è successa anche una cosa buffa con uno dei miei nipoti. Avendo mandato il file via mail in Canada, dove vivono, in anteprima, mia sorella è scoppiata a piangere e allora il figlio le ha detto: “mamma, ma allora la zia non ha scritto un bel libro, se ogni volta che lo leggi piangi!” (ride).

E tuo padre, invece?

Il libro è uscito proprio il giorno del suo compleanno, in una di quelle casualità che mi sembrano sempre non troppo casuali… Gliel’ho fatto trovare con dedica sul tavolo della cucina: beh, da quel giorno gira sempre con il libro in mano!

La morte di mamma Tonina ha cambiato in qualche modo i vostri rapporti?

Direi di no. Eravamo già molto uniti anche prima. Certo, adesso mi trovo a raccontare le cose direttamente al mio papà, mentre prima le dicevo a mia madre, che mediava tra noi… ti confesso che all’inizio non è stato facile, anche perché, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, all’inizio mi sono anche chiusa. Poi con il tempo, anche dopo la sua operazione, quando è diventato un po’ più sereno, le cose sono migliorate. E poi adesso che sono sempre in giro, mi fa piacere se quando torno mi fa trovare il pranzo pronto!

Vivete insieme?

No, anche se siamo vicini, abbiamo mantenuto ciascuno la propria indipendenza.

Tu personalmente ti senti cambiata?

Sì: in alcune cose sono tornata a essere un po’ la bambina che ero prima, che faceva le cose in modo più spontaneo. Nelle scelte, invece, sono diventata più severa e forse anche più decisa. Ho capito che sono io che devo prendere in mano le mie decisioni, mentre prima, anche se potrebbe non sembrare, mi affidavo molto alle persone che avevo accanto.

Secondo te, c’è un momento in cui si comincia a dimenticarsi della sofferenza subita da parte del nostro caro e si prende a rivederlo come era prima?

Nella mia esperienza, il dolore ha delle fasi: ci sono stati momenti in cui mi sembrava di farcela, altri invece di crolli improvvisi. Poi pian piano impari a riconoscerle e a gestirle. Soprattutto, impari a sentire la persona che hai perso in un altro modo. Quando me lo dicevano all’inizio, non solo non ci credevo, ma mi arrabbiavo anche: e invece è successo. Però, ribadisco: ognuno ha la sua storia. La mia è questa.

Certo, però ha delle caratteristiche di universalità in cui altri potranno riconoscersi: dove stai presentando il tuo libro?

La promozione è appena partita, in ogni caso vado dove mi chiamano, perché il presupposto è andare da chi desidera che lo presenti. Per esempio, non mi va che se ne parli in modo esclusivo quando si affronta la questione del “dopo di noi”, circoscrivendola al mondo della disabilità. Mia sorella mi ha proprio detto un giorno: “parla anche di me, fa’ capire che io non ho sofferto di meno perché ho due braccia”. Poi, certo, a livello pratico ho avuto delle difficoltà di più, ma non è questo il punto.

Ti danno fastidio le etichettature, insomma.

Guarda: alla fine se gli altri vogliono etichettarmi, lo facciano pure. L’importante è che non mi etichetti da sola! In generale, in ogni caso, racconto di me e non ambisco a cambiare la testa di nessuno. Seguo piuttosto un principio che mi ha insegnato la mia mamma già dai tempi dell’asilo: non dimostrare qualcosa, ma semmai mostrare che ci siamo anche noi.

E lo stai facendo molto bene, direi. Quanto ti ha guidato l’esempio di tua mamma, che tu descrivi come molto credente?

La mia fede rispetto alla sua è piccola: ammiravo molto la sua perché era concreta. Mi diceva spesso, del resto: “io non ho la fede della candela”. La sua era una fede attiva, sempre in cerca di stimoli, soprattutto negli altri. Sto cercando di seguire queste orme anch’io. Poi so che durante la malattia ha fatto tante domande a Dio, è stata anche abbastanza critica con lui, perché voleva vivere ancora, com’era normale. A un certo punto, però, è arrivata a nutrire fiducia, ad affidarsi, letteralmente, al suo percorso. E ha vissuto, fino alla fine. Ha cavalcato la vita, anzi. Si è affidata al suo destino e io ho provato ad affidarmi con lei.

Molto bello… la preghiera ti aiuta? Mia sorella, buddista, prega e a me sembra che la conforti.

In verità, la mia vera preghiera è la danza: la mia mamma mi ha fatto proprio promettere che non avrei dovuto mai smettere di danzare, perché sarebbe stato il mio modo per tenermela vicino, per pregare come lei, in modo concreto. Quando ballo, dico grazie alla vita e comunicandolo agli altri pronuncio la mia preghiera più grande, laica e universale.

C’è stato un momento in cui ti sei lasciata “trafiggere dal dolore”, come racconti nel libro. Dopo quel momento che cosa è successo? 

Ti riferisci al mio lungo pianto nel cimitero: in quel momento ho capito profondamente il significato della parola orfana. E’ stato lì che ho realizzato che avevo tutto il diritto di piangere, oltre che il bisogno di farlo. Dopo, ho cominciato a sognarla e a sentirla davvero accanto a me. A volte, pensa, mentre scelgo un vestito da indossare che so che non le piacerebbe, mi metto a ridere e le dico: sì, lo so, non ti piace! Però non c’è un momento specifico in cui accade una cosa così: ognuno ha il suo.

Da figlia non madre, ti piacerebbe diventarlo a tua volta?

È una domanda difficile… sì, certo, anche se, come sai, ho sperimentato una specie di maternità vivendo con i figli del mio ex compagno. Però, continuo comunque a pensare che ognuno di noi ha il suo percorso e che se non lo ostacoliamo, alla fine troviamo quello per cui siamo nati. Mia sorella, per dire, è nata per fare la mamma e io sono veramente felice per lei. D’altronde, se ci pensi, lei non ha fatto quello che ho fatto io. Penso in definitiva che tante persone soffrano perché magari si ostinano a seguire un percorso che non è il loro, per condizionamenti esterni, perché gliel’hanno insegnato. E comunque mia mamma me lo diceva sempre: la vita ricomincia a quarant’anni e aveva proprio ragione (Simona ha compiuto quarant’anni lo scorso 18 giugno, ndr)!

Sono d’accordo… in che modo è ricominciata la tua?

Sto imparando a immergermi nella vita senza farmi troppe domande, lasciandomi trasportare molto di più. Certo, perché lo capissi, il cambiamento doveva essere così forte, ma il risultato è che oggi riesco a vedere molte cose che prima non avrei visto.

Ognuno ha il suo lutto, è vero, però detto da una donna con un dna davvero eccezionale come il suo, non resta che imitare, per quanto possibile, il suo esempio, affidandosi alla vita. Giorno dopo giorno, a testa alta. Da Muoversi Insieme il nostro grazie più commosso.

 

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