La psicologia ai tempi delle metropoli

Scritto da Luciana Quaia il 23-06-2010

Che peso ha, oggi, la psicologia nella nostra società? Sicuramente non indifferente, se a Milano qualche mese fa si è sperimentato un nuovo progetto: lo psicologo di quartiere. l’esperienza è consistita nell’apertura di 24 punti d’ascolto presso le farmacie di alcune zone cittadine, destinati a diventare una sorta di “antenna del disagio sociale” della metropoli. I riscontri sono stati positivi e i dati raccolti hanno evidenziato una preponderanza di accessi da parte di un pubblico femminile, in maggior parte occupato e con livello di istruzione medio-alta.
I problemi portati alla consultazione psicologica sono risultati essenzialmente legati ad ansia, depressione, piccole fobie, attacchi di panico. Non sono mancati casi di maltrattamento, problemi di coppia e di allevamento dei figli, mobbing lavorativo.
Quali sono gli obiettivi di questa figura professionale resa gratuita ai cittadini?
Oltre a costituire un’opportunità economica per coloro che non possono permettersi una consulenza privata, lo scopo è anche quello di alleggerire il servizio pubblico da richieste non appropriate. Molte delle persone che affollano gli ambulatori medici, infatti, lamentano spesso un bisogno psicologico più che un malessere fisico e l’auspicio è che una pillola possa essere il rimedio efficace a un male che, purtroppo, ha spesso radici profonde e poco trattabili farmacologicamente. Non è casuale il dilagare dell’assunzione di psicofarmaci a tutte le età nelle grandi città occidentali.
Un ulteriore obiettivo dello psicologo di quartiere è quello di pre-cura. Gli appuntamenti hanno una cadenza settimanale: in alcuni casi, poche sedute sono state sufficienti a rafforzare le capacità dell’utente nel contrastare il suo problema, mentre per altri è stata l’occasione per la segnalazione e la presa in carico presso servizi socio-sanitari territoriali.
l’impressione è che non si possa più restare silenti di fronte alle crescenti necessità di ricevere un aiuto per risolvere situazioni di crisi certo di tipo individuale, ma anche strettamente interconnesse ad un contesto sociale e culturale che si avverte sempre più in balìa di forze impersonali e difficilmente controllabili.
Un primo fattore è da collocare nella profonda trasformazione nelle famiglie.
In un tempo non molto remoto, la comunità tradizionale rappresentava gruppi di persone che potevano contare su forti legami sociali, relazioni interpersonali di fiducia e superamento dei conflitti in nome del raggiungimento di interessi collettivi. La famiglia era numerosa, l’aspettativa di vita più contenuta, la vecchiaia più precoce, ma compensata dal prestigio del nonno saggio e competente che trasmetteva, a figli e nipoti, saperi maturati attraverso l’esperienza.
Il rapido e intenso processo di industrializzazione e modernizzazione degli ultimi decenni ha indubbiamente messo in crisi le relazioni sociali che contraddistinguevano la comunità tradizionale rurale. Cambiando la sua struttura esterna, anche la natura della vita interna si è profondamente modificata.
Nella società agricola, infatti, il fattore spazio connotava anche la qualità della relazione: una famiglia patriarcale intrecciata a un vicinato solidale dove la donna giocava un ruolo di collante nelle transizioni della crescita e nei compiti della cura; un’attività lavorativa concentrata vicino al luogo abitativo che impediva faticosi spostamenti; una scarsità della diffusione mass-mediatica che incentivava l’incontro e lo scambio con gli altri membri della collettività.
Ora la società urbana industriale ha completamente ridefinito il suo assetto: la famiglia ha ridotto la sua entità; la donna è uscita dal focolare domestico per proiettarsi nel mondo del lavoro; la vita media acquista sempre più durata; l’anziano si dibatte fra la rapida obsolescenza delle conoscenze e l’inesperienza delle nuove conquiste tecnologiche; informazioni e messaggi letteralmente bombardano il sapere collettivo.
Un ulteriore fattore per comprendere il diffuso disagio psicologico  è determinato dal fatto che la comunità da locale sta diventando globale.
La stessa mescolanza di etnie che colora le nostre strade rende più precaria la comunicazione, la reciproca conoscenza, l’assuefazione veloce a diversi stili di vita e culture.
Il termine globale, inoltre, reca con sé l’assunzione di preoccupazioni economiche, politiche, ambientali, ecologiche, religiose non strettamente correlate alle proprie scelte esistenziali e alla loro possibilità di controllo.
Queste mutazioni hanno contribuito a mettere in secondo piano quelle strutture che nel passato, invece, favorivano lo sviluppo e il riconoscimento dell’identità individuale, cedendo il passo a una crescente percezione di insicurezza, paura e, soprattutto, solitudine.
Se un tempo la tradizione tramandata di generazione in generazione riusciva a contenere il peso di un problema, oggi la complessità della modernità ha quasi del tutto annullato questa capacità, generando impotenza e domanda di nuove pratiche per organizzare la vita quotidiana.
Probabilmente  questi elementi hanno costituito un un terreno fecondo per consentire alla psicologia di gettare le sue basi e la prova più evidente la riscontriamo nella comunicazione pubblica: i quesiti posti agli esperti nelle pagine patinate di riviste, rotocalchi e rubriche quotidiane; i talk-show televisivi dove la narrazione di sé diventa il modo più efficace per rendersi visibili nel nulla che opprime; i libri di narrativa scritti da famosi psicoterapeuti per rendere più accessibile la comprensione di certe psicopatologie e disagi esistenziali; le campagne pubblicitarie che sostituiscono il rapporto con l’oggetto alla relazione inter-individuale.
Nella comunità globale l’ambiente circostante non riesce più a dare uno spazio di riconoscimento a chi lo abita. Più soli e incerti, l’attraversamento delle fasi di passaggio esige nuove competenze.
c’è voglia che lo psicologo non rappresenti esclusivamente il curatore del singolo, ma che si riappropri di quel ruolo che agli inizi degli anni Ottanta era stato fulcro della psicologia di comunità, ovvero la produzione di interventi di cambiamento centrati sia sul rafforzamento delle capacità psicologiche della persona, sia sull’accrescimento e rinforzo delle competenze di ogni cittadino.
Il presupposto fondante del lavoro di comunità è appunto quello di creare una sinergia forte tra le risorse professionali (specialisti, operatori, servizi, istituzioni) e l’identificazione di risorse non professionali (famiglia, volontari, comitati, associazioni, gruppi di auto-mutuo aiuto) costituite da cittadini attivi che partecipano e collaborano nel produrre benessere in tutti gli aspetti tipici della vita sociale: devianza, anziani, famiglia, qualità della vita, sicurezza urbana, scuola.
Ecco. Considerando l’onere economico, forse l’istituzionalizzazione della figura dello psicologo di quartiere resta una chimera, ma una “psicologia metropolitana” che spinga verso la riacquisizione di una responsabilizzazione e partecipazione collettiva può rappresentare un valido strumento per sviluppare relazioni e abilità che restituiscano alla società e ai suoi componenti una visione del futuro meno sofferente.

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