Il corpo ritrovato, una conquista della vita

Scritto da Luciana Quaia il 20-08-2010

Le ultime battute dell’estate ci trovano ancora con un corpo esposto, desideroso di sole, caldo e vigore: fra breve, quando l’autunno ci costringerà di nuovo a coprirci, riporremo nel guardaroba estivo anche le preoccupazioni che tanto ci avevano assillato alla prova del costume da bagno.
Accettare il proprio corpo, infatti, non è sempre così scontato, benché sia divenuto, nel corso di poco più di un secolo, sempre più centrale man mano che i costumi occidentali si facevano meno repressivi.
Paradossalmente, anzi, quanto più lo stesso è amato, disprezzato, esaltato, indagato, violentato, pubblicizzato sui mass media, nell’arte e in medicina, tanto più ci sentiamo inadatti a mostrarlo nelle stagioni più calde, in particolare in due fasi della nostra vita: l’adolescenza e la vecchiaia.
Non sto parlando di un’entità biologica, fatta di organi, cellule e funzioni, quanto piuttosto dell’esperienza corporea che ognuno di noi sperimenta nel sentire, percepire, conoscere il proprio corpo sino a considerarlo come strumento indispensabile per relazionarsi al mondo e con gli altri. Riconoscere questa appartenenza è un processo lento e anche faticoso, soprattutto in quei due momenti sopra citati, in cui si manifestano importanti mutamenti fisiologici e morfologici.
Durante l’adolescenza guardarsi allo specchio riflette infatti il turbamento di un corpo che stenta a riconoscersi, avendo abbandonato come una stanca muta il sé bambino. In questo periodo, è piuttosto raro avvertirlo come soddisfacente; più facile è invece assumere un atteggiamento di separatezza, come se l’immagine riflessa fosse “altro” che può far soffrire e quindi va punito. Molte piaghe sociali ci parlano di fenomeni autolesionistici che dalle forme ora culturalmente accettate (tatuaggi e piercing) arrivano a manifestazioni ben più gravi come l’uso di stupefacenti, la sfida in sport estremi, i disturbi alimentari dell’anoressia e bulimia, il suicidio.
Occorre considerare che le risposte a questi eventi non vanno ricercate solo nel campo della psicopatologia, ma anche nell’utilizzo culturale che la nostra società opera nei confronti del corpo.
l’asse si è infatti sempre maggiormente spostato dall’Essere un corpo all’Avere un corpo, quindi dal sentirsi Soggetto della propria espressione corporea (il messaggio preponderante che io rivolgo al mondo e con il quale contemporaneamente mi segnalo e faccio segno) a diventarne Oggetto.
Nella dimensione oggettivata, il corpo divorzia dalla persona, resta una porzione separata e come tale passabile di rifiuto, di non accoglienza, di non riconoscimento.
Uno degli esempi più eclatanti è la pubblicità. Evidentemente non è del tutto casuale che la vocazione originale di tale termine si riferisse alla donna pubblica, colei che si offriva come merce.
E così continua oggi: il dominio che esercita la pubblicità sul corpo lo allontana, lo destruttura, lo scompone nelle parti ritenute più seducenti (seno, sedere, gambe, bocche socchiuse) per erotizzare merci e prodotti sino a renderli desiderabili come il sesso.
Vivere il corpo come oggetto, viverlo secondo un canone estetico, significa entrare in contatto con un falso corpo, un corpo che ancor prima di essere sentito nostro, deve essere accettato dagli altri.
La vecchiaia, dicevo, è dunque l’altro ciclo di vita importante per le trasformazioni corporee. l’invecchiamento è innegabilmente un costante divenire e il processo è irreversibile.
I cambiamenti del corpo iniziano a presentare anche limiti fisici che segnalano che ne abbiamo uno a tutti gli effetti. Anche in questo caso guardarsi allo specchio difficilmente corrisponde a come ci sentiamo: non c’è una sovrapposizione tra il giovane che ancora ci portiamo dentro e l’immagine riflessa. E pure in questo caso siamo condizionati da un inganno culturale: la vecchiaia, per essere accettata, deve essere dissimulata.
Per esempio, Jean Améry, nel suo Rivolta e rassegnazione, in tono rabbioso e graffiante esprime: “Potremo sfuggire allo specchio. Ma non potremo non osservare le nostre mani, sulle quali sono in evidenza le vene, la nostra pancia, molle e grinzosa, i nostri piedi, le cui unghie, nonostante l’impegno del pedicure, risultano ispessite e crepate. Nemmeno se fossimo ciechi potremmo sfuggire al nostro corpo; dobbiamo stare in questa nostra pelle che si squama, anche se ben volentieri la abbandoneremmo”.
Lo specchio può equivalere a una sindrome: cerco nell’immagine riflessa l’immagine invisibile che sento appartenermi, un volto illusorio che confermi l’idea che mi sono fatto di me, simile al Dorian Gray di Oscar Wilde che non poteva ammettere la ferita narcisistica del ripiegamento della carne ai capricci del tempo.
La chirurgia estetica ci offre il potere di mantenerci pietrificati in un’eternità fittizia, scolpendo e levigando il corpo, in realtà bloccandone la capacità e le modalità attraverso cui esso sa pronunciare messaggi che le parole non riescono a dire (i tratti definiti come comunicazione non verbale: movimenti, gestualità, cambiamenti delle tonalità della voce, contatto fisico, postura). Il volto è la parte del corpo che meglio esprime le emozioni: la faccia è nuda, vulnerabile e secondo Emmanuel Levinas incarna l’origine dell’esistenza etica, poiché nella sua immediatezza di esposizione esige una risposta alla sua pretesa di essere guardata e riconosciuta. Ogni ruga, ogni solco, ogni cicatrice sono tracce indelebili, segni che fanno del corpo una memoria.
Provate a scegliere alcune fotografie relative a precise epoche della vostra vita: bambino, adolescente, giovane, adulto, maturo, fino all’età corrente. Allineatele e cercate nel tempo che è scorso non il modello estetico, ma, come dice James Hillman nel suo La forza del del carattere “il sopravvento della forza di gravità, quando lo sguardo interiore arriva al cuore delle cose, a ciò che è nascosto e sepolto. Il corpo apre la strada verso il basso, dando profondità al nostro carattere. Il corpo non mente”.
La persona anziana che davanti allo specchio è disposta a dire sì alle sue variazioni cessa di imbronciarsi dinanzi alla naturalità dei cicli della vita, non ritira lo sguardo dal mondo, non diventa vittima della nostalgia e del rimpianto, accoglie e difende la propria debolezza per concederle maturità e pace. Finalmente la soggettività del corpo, il corpo che io sono, diventa espressione di ciò che posso. Il corpo così ritrovato è immagine di difficoltà e di conflitti, ma anche ritratto di
decisioni, di scelte, di testimonianze. E’ il ritrovamento di esso in altri corpi, quelli che si sono conosciuti, amati, moltiplicati fino ad espandersi in tutte le generazioni.
Per concludere, vi lascio con l’esortazione che l’autorevole “grande vecchio” Eugenio Scalfari, nel suo Incontro con Io, ci trasmette : “Il vecchio è consapevole del suo corpo. Ne segue e ne prevede il declino, ne sente la fragilità ma lo possiede tutto, sa governarlo in ogni sua parte, lo guida e lo contiene senza più farsene dominare come è accaduto nel tempo degli umori di primavera. … Poco dopo, tutto sarà rovina. Dunque, possiediti con esperta allegria, uomo, ora che finalmente puoi farlo senza più il peso greve di doverti aprire il passo nei giorni che verranno …”.

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