Anziani non autosufficienti, come gestire lo stress della cura

Scritto da Luciana Quaia il 17-06-2011

Invecchiamento della popolazione e costante aumento dell’aspettativa di vita sono ormai conoscenze diffuse: suggerimenti, consigli, indicazioni utili per mantenere un buon livello di qualità esistenziale sono stati recentemente forniti su queste pagine anche dal nostro geriatra Massimo Tanzi.

Il tempo addizionale raggiunto, purtroppo, paga però un suo prezzo: una maggior incidenza di patologie croniche e degenerative che comportano pesanti limitazioni nell’autonomia e nell’autosufficienza dell’anziano che ne viene colpito.

In un corpo sempre più fragile la necessità di ricevere cure e assistenza si fa prioritaria e questo è un bisogno che, spesso anche per lunghi periodi, trova all’interno della famiglia la risposta più immediata.

La dipendenza di una persona che invecchia rappresenta un carico di stress che generalmente coinvolge l’intera famiglia allargata e in particolare un componente, per lo più di sesso femminile, che diventa il principale riferimento per l’ammalato, cioè il caregiver.

Numerosi studi indicano come sia la generazione intermedia la maggiormente esposta al dover affrontare il disagio di compiti di sviluppo non sempre compatibili fra loro. Suggestiva la metafora proposta: sandwich generation, ovvero la generazione “schiacciata” fra l’impegno della crescita dei figli non ancora adulti, la cura dei nipotini dei figli giovani adulti e l’assistenza ai genitori invecchiati e improvvisamente vincolati all’aiuto altrui.

Nonostante i profondi mutamenti della struttura familiare e la riduzione del numero dei componenti che può attivamente partecipare al compito della cura, ancor oggi in Italia resta elevata la percentuale di non autosufficienti assistiti all’interno della propria cerchia familiare.

l’immagine della “naturalità” dell’accudimento all’interno dell’ambito domestico grazie alle premure femminili è tuttora molto diffusa a livello culturale e persino i caregiver direttamente coinvolti si trovano ad agire un ruolo di sostegno verso gli altri che li porta a rinunciare ad ascoltare le proprie stesse difficoltà fisiche ed emotive.

Perché il lavoro di cura oggi richiede competenze e saperi assai complessi dal punto di vista tecnico e della forza fisica, nonché disponibilità di tempo, possibilità economiche, revisione della propria organizzazione quotidiana e resistenza psicologica.

E’ opportuno mettere in evidenza come si può correre il rischio di enfatizzare solo la parte “positiva” della presa in carico di una persona cara, secondo quella che lo psicologo Vittorio Cigoli definisce la cura della riconoscenza, determinata dalla consapevolezza che l’assistito (se genitore) è colui che ha dato il dono della vita, o che ha affrontato pesanti sacrifici per garantire successo nella crescita evolutiva dei figli, o è intervenuto in momenti di difficoltà.

Tutto ciò determina un senso di dovere e di giustizia nel restituire dedizione, ora che quel genitore non è più in grado di badare a se stesso da solo.

Ci sono però, analogamente, lati che restano in ombra dietro le motivazioni che spingono alla scelta di diventare caregiver.
E’ il caso di quelle situazioni in cui il familiare si trova ad esercitare un ruolo di curante in modo forzato, o perché non sono presenti altri membri che possono intervenire nella condivisione dell’onere della cura, o perché informalmente prescelti dalla persona malata, o perché la gravità della crisi economica non lascia opzioni alternative.

Esistono inoltre altri fattori che concorrono a potenziare la fatica del prendersi cura. un’accurata e interessante ricerca svolta da un gruppo di psicologhe per conto della Caritas Ambrosiana dal titolo Ferite invisibili mostra attraverso una serie di testimonianze raccolte tramite interviste come nei caregiver, accanto alla voglia di essere presenti, amare ed essere amati, possa emergere un carico di stress difficilmente controllabile all’interno della relazione interpersonale.

Questo aspetto assume rilevanza soprattutto in quei casi in cui è la persona ammalata stessa a non voler accettare la propria condizione.

Non è infatti così scontato che l’anziano non autosufficiente assuma le caratteristiche del paziente docile e accondiscendente, grato per le attenzioni ricevute. Purtroppo la patologia può modificare il carattere ed ecco che il caregiver si trova in una posizione di “vittima”, poiché bersaglio di accuse, insofferenza, arroganza, o ricatti morali che rendono il già complicato compito assistenziale un fardello insostenibile.

Un altro esempio eclatante è legato alla patologia di demenza, dove un carico emotivo di enorme stress può colpire la persona che si occupa di un congiunto demente. Venendo a mancare nel malato i presupposti del ragionamento e della comunicazione, il curante deve continuamente imparare a sostenere il cambiamento di personalità e i disturbi comportamentali che la malattia scatena; ad esercitare nuove forme di comunicazione e osservazione; ad assumere decisioni che l’assistito non riesce più a compiere; a rinunciare a contatti sociali e relazioni amicali, piombando in una gabbia di isolamento e solitudine.

Tutte queste considerazioni impongono un impegno sociale e politico volto a riconoscere e sostenere un compito che pur prestato nel “luogo degli affetti”, non può essere lasciato in balia di tutte le difficoltà finora elencate: psicologiche, tecniche, metodologiche, normative, legali, economiche …

In forma non ancora esaustiva il sistema dei servizi socio-sanitari (centri diurni, asili notturni, ricoveri di sollievo, case di riposo, assistenza domiciliare) rappresenta sicuramente una base d’appoggio, tuttavia condizionato da un costo che non per tutti è sostenibile e una diffusione insufficiente per una necessità crescente di anno in anno.

Sovente, inoltre, quando il malessere è più nascosto fra le pieghe dell’affettività anch’essa diventata malata, forse non è nemmeno la risposta cercata.

Diventano a questo punto maggiormente adeguate altre proposte per superare il disagio psicologico.

Sicuramente una è fornita dall’attivazione dei gruppi di mutuo aiuto, punto elettivo in cui ognuno può esprimersi con naturalezza e spontaneità in un clima di condivisione e di solidarietà, trovando nel reciproco ascolto soluzioni positive per il proprio malessere.

Nel citato testo Ferite invisibili un altro suggerimento riguarda il counseling psicologico rivolto alla coppia curante/assistito, laddove la mediazione di una figura professionale neutra potrebbe dirimere incomprensioni a livello comunicativo.

Quella che appare invece una sfida su cui riflettere è la proposta fatta dalle autrici sullo spostamento del focus dal caregiver direttamente al grande vecchio fragile.

Lo stereotipo del “tanto da vecchi non si cambia” induce per lo più a scegliere come interlocutore la persona che si fa carico del malato – e ciò diventa un obbligo nel caso di malattia dementigena – nella convinzione che chi si trova in gravi condizioni di bisogno non riesca a definire realisticamente le sue necessità.

Viceversa, in una cultura che incalza costantemente sulle potenzialità del successo tecnologico e sull’illusorio controllo di malattia e morte, accogliere in un setting appropriato dubbi e paure di chi si trova a percorrere l’ultimo tratto di vita potrebbe essere un valido contributo per lenire il suo travaglio esistenziale.

Far entrare nello scenario del possibile la perdita delle capacità e l’esigenza di chiedere aiuto è una conquista che non deve essere delegata alla scienza, ma acquisita attraverso un itinerario introspettivo di consapevolezza e accettazione della realtà.

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