Ricordo e memoria attraverso la fotografia

Le fotografie sono la storia delle nostre radici e servono, nel corso del tempo, a definire i diversi centri di gravità del nostro stare al mondo.

Scritto da Luciana Quaia il 16-01-2012

Edgar Reitz nel suo famoso film Heimat racconta la saga di una famiglia tedesca nel corso del Novecento. A partire dal secondo degli undici episodi, il regista utilizza l’espediente fotografico per riassumere le puntate precedenti e dare inizio a quella successiva. In ogni apertura capitolo compaiono quindi le fotografie dei personaggi fino lì raccontati mentre una voce sintetizza i fatti accaduti, nominando la gente raffigurata in istantanee ingiallite tipiche dei vecchi album di fotografia di inizio secolo scorso, che, oltre a ricordare i volti dei protagonisti, mostrano, attraverso il succedersi del tempo e dei luoghi, le vicende e i cambiamenti storico-politici dell’epoca.

In un altro celebre film, Smoke di Wayne Wang, assistiamo, all’opposto, a una scelta fotografica apparentemente statica. Tutte le mattine alle otto, Auggie fotografa l’angolo tra la Terza e la Settima Strada. E’ già arrivato a quattromila fotografie dello stesso posto, per riprendere le quali rinuncia pure alle vacanze. Sfogliando l’album, all’obiezione di un cliente che constata la loro invariabilità, replica: “Sono tutte uguali, ma ognuna è differente dall’altra. Ci sono delle mattine di sole, delle mattine buie; ci sono luci estive e luci autunnali; giorni feriali e fine settimana; c’è gente con l’impermeabile e le galosce e gente con la maglietta e i pantaloncini; qualche volta la stessa gente, e qualche volta differente; qualche volta quelli differenti diventano uguali, e la stessa gente scompare. La Terra gira intorno al Sole, e ogni giorno la luce del Sole colpisce la Terra da un’angolazione differente”.

Nella loro differenza, entrambe le modalità di utilizzare la fotografia ci spiegano la relazione che l’essere umano può intrattenere col mondo, agendo sia come strumento per arrestare un momento che non sarà più ripetibile nel tempo, sia come tecnica per costruire una certa immagine seguendo una propria inclinazione estetica.

Fotografare infatti equivale a catturare quella immagine, che non potrà più riprodursi, e farla nostra per sempre. Dallo sguardo che l’ha percepita al possesso fisico della sua riproduzione. Dall’evanescenza della memoria di quella percezione, alla possibilità di consegnare, con la fotografia scattata, il ricordo all’eterno. l’illusione non solo di aver arrestato la fuga del tempo, ma di aver potuto effettuare un viaggio a ritroso nella memoria. Perché, in un certo senso, la foto cristallizza il ricordo, restituisce esattamente quello che ha visto, anche quando anni sono passati trascinandosi con sé luoghi e persone. Roland Barthes ricorda nel suo “La camera chiara” come, in una sera di novembre, riordinando vecchie fotografie dopo la recente scomparsa della madre, trovando una sua vecchia inquadratura a cinque anni di età :”Osservai la bambina e finalmente ritrovai mia madre. La luminosità del suo viso, la posizione ingenua delle sue mani … tutto ciò aveva trasformato la posa fotografica in quel paradosso insostenibile che lei aveva sostenuto per tutta la vita: l’affermazione di una dolcezza”.

Proprio perchè ha immobilizzato un volto, colto un attimo, un gesto, una luce, una situazione, quella foto ripescata dai ricordi può far parlare il soggetto che raffigura.

E’ anche il caso degli scatti proposti in occasione di mostre o retrospettive relative a particolari eventi storici che, con un linguaggio evocativo diverso da quello narrato dai testi di studiosi o quello orale tramandato dalle testimonianze, ci offrono lo stesso valore di “essere una storia”, poiché ricostruiscono attraverso la potenza dell’immagine simbolica qualcosa che va oltre la semplice documentazione dei fatti. Una certa inquadratura del viso, del paesaggio, della prospettiva di una strada, o la scelta di soffermarsi solo su particolari di immagini – gli occhi, le mani, una finestra, una casa – serve a rimandare con precisione ciò che in quel momento è stato visto e a risvegliare nell’osservatore la stessa emozione dell’evento, nonostante l’impossibilità di esserci stato.

un’incursione nel sito dei Fratelli Alinari e nel suo immenso patrimonio documentale accumulato dall’inizio della storia fotografica ad oggi potrà farci viaggiare, attraverso lo sguardo, nelle istantanee di vita “fermata” di arte e cultura della società italiana e del resto del mondo.

Se la fotografia narra della vita che ci circonda, altrettanto è in grado di raccontare di noi stessi. Provate a recuperare vostre fotografie scattate a età diverse della vita e disponetele l’una accanto all’altra. Con un’unica occhiata potrete prendere possesso di tutta la vostra esistenza, come davanti ad uno specchio fornito di memoria, una linea continua nel tempo che dal passato porta al presente, riproponendo particolari episodi della vita e delle trasformazioni fisiche attraversate dal corpo.

Questa capacità di essere potente forma espressiva e comunicativa, ha reso la fotografia prezioso strumento all’interno della relazione psicoterapeutica.

Nel 1993 Judy Welser e Linda Berman hanno individuato nella Fototerapia un mezzo per facilitare l’analisi del proprio mondo emozionale e del rapporto col sistema familiare di appartenenza. Il metodo consiste nella ricerca del potenziale evocativo e simbolico suscitato dalle fotografie portate dalla persona, quasi rappresentassero una specie di diario che, nel suo dispiegarsi e commentarsi, porta alla luce momenti cruciali della propria esistenza. Il materiale portato in seduta consiste in fotografie che possono essere scattate direttamente dal paziente o al paziente da altri soggetti, autoscatti o album familiari, immagini create da altri e utilizzate per verificare il tipo di proiezione che l’osservatore ne effettua.

In effetti, trascurando l’analisi prettamente tecnica di come è “fatta” una fotografia, sicuramente la percezione che ognuno di noi ha di fronte a un’immagine, rispecchia la specifica modalità individuale di percepire il mondo e se stessi, al di là di quello che vi è strettamente raffigurato.

A ben guardare, inoltre, lo scatto stesso non corrisponde mai a una riproduzione vera e fedele del mondo circostante, bensì a una specifica scelta compiuta dall’autore di quello scatto: che cosa il suo occhio indaga, se è già insita la tendenza a voler raccontare una storia, se lo usa per emozionare, per rievocare, per denunciare, per testimoniare.

E’ raro che ci si interroghi sul perché conserviamo vecchie foto, soprattutto in un oggi in cui le tecnologie diventano sempre più fulminee ed invasive nel catturare qualsiasi scorcio. Già Italo Calvino preconizzava nell’“Avventura di un fotografo”: “Ah che bello, bisognerebbe proprio fotografarlo! E già siete sul terreno di chi pensa che tutto ciò che non è fotografato è perduto, che è come se non fosse esistito, e che quindi per vivere veramente bisogna fotografare quanto più si può”, pronosticando contemporaneamente la fatuità di uno stile di vita basato esclusivamente sull’apparire e il rischio di cadere vittima dell’ossessione di rendere fotografabile ogni istante della propria esistenza.

Resta il fatto che nell’album di fotografie è racchiuso il bisogno di conservare la nostra memoria e nello sfogliare le sue pagine, nel nostro dialogo interiore con quei “clic” gelosamente custoditi ,riportiamo in vita aspetti talvolta segreti e profondamente nascosti sia delle generazioni che ci hanno preceduto sia nell’accompagnamento di noi stessi.

Un modo di addolcire quel senso della mancanza che inevitabilmente lo scorrere dei giorni esige.

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