Relazione e comunicazione con la persona colpita da demenza (parte seconda)

Scritto da Luciana Quaia il 20-10-2011

Sia pure con dolente rassegnazione, spesso nei colloqui dei familiari caregiver di malati di demenza emergono frasi come: “Non capisce ciò che gli dico”; “Non sa più prendere decisioni”; “E’ diventato pigro”; “Non sa fare più niente”.
Tali convinzioni sono determinate dalle inconfutabili manifestazioni della progressione della malattia che implica la perdita di molte capacità, fra cui costruire un ragionamento, pianificare le azioni della vita quotidiana, saper utilizzare correttamente gli oggetti più banali. Quanto basta per infantilizzare chi ci vive accanto da anni, assumendo nei suoi confronti un tono paternalistico e di costante correzione, improntato dall’impotenza di un recupero del passato.
Ma, come spiegavamo nel precedente articolo, un atteggiamento di questo tipo non passa inosservato al malato, assai ricettivo ai toni della voce ed espressioni del volto. Con l’espressione “psicologia sociale maligna” Tom Kitwood spiega le modalità con cui la condotta assunta verso il malato nel trattarlo come se non ci fosse, o non capisse, influisca negativamente sulla propria percezione di sé.
Certi come siamo che la demenza sia una forma totalmente invalidante per chi ne è colpito, corriamo il rischio di non considerare il piano della soggettività del malato, di come viva la sua condizione e di come agisca per affrontare i profondi mutamenti che certamente non sono stati scelti in base alla sua volontà.
In quest’articolo si tenterà pertanto di consigliare alcuni comportamenti da riservare al soggetto assistito a proposito delle abilità che non si sono ancora smarrite, al fine di contrastare la stereotipata affermazione “Non è più in grado di fare niente”.
In prima battuta è opportuno chiarire che il termine memoria va declinato al plurale. Diverse sono, infatti, le forme di memoria da noi utilizzate e, nella malattia, esse subiscono variazioni in funzione dei vari stadi di gravità: la memoria a breve termine ha una compromissione assai precoce, più tardi il deficit si estende alla memoria semantica e autobiografica, mentre la memoria procedurale resta attiva sino a uno stadio avanzato. Quest’ultima, conosciuta anche come “automatica” è una memoria di tipo implicito, ovvero il suo recupero non prescinde da una consapevolezza. Per meglio chiarire il suo funzionamento occorre considerare che ogni nostra azione prevede sequenze organizzate e sequenziali per raggiungere un determinato fine. Molte di esse, svolte quotidianamente nell’arco di una vita (lavarsi i denti, allacciare i bottoni, sfogliare un giornale) diventano superapprese, e possono perciò essere agite senza bisogno di ragionamento.
Il malato di Alzheimer conserva a lungo le abilità del fare controllate dalla memoria procedurale. Forse non ce ne accorgiamo perché prevalgono altri aspetti psicologici della patologia, quali la depressione, l’apatia, la passività, o probabilmente perché il fastidio determinato dallo scarso risultato dell’opera compiuta ci spinge a sostituirci a lui e farlo al posto suo.
Se però il malato non viene stimolato a esercitare le normali occupazioni di tutti i giorni, sarà destinato a perdere quelle funzioni con maggior velocità.
Quali sono dunque i suggerimenti di supporto?
–    darsi tempo: l’organizzazione del quotidiano dovrà perdere l’intensità del ritmo usuale e assumere tempi lenti, poiché lenta è la reazione del nostro malato alle sollecitazioni date. Spiegargli passo dopo passo con parole semplici la sequenza dell’attività che si sta svolgendo, ripetendo il messaggio più volte, avrà un effetto di rassicurazione e di diminuzione dello stato d’ansia.
–    scegliere attività senza sconfitta: le azioni richieste devono tener conto delle capacità ancora funzionanti e dei limiti che nel tempo si sono sviluppati. Ciò significa che non bisogna avere come riferimento la bravura di chi ci sta accanto prima che si ammalasse, ma che dobbiamo semplificare le proposte e non demoralizzarci se ugualmente il risultato non corrisponde esattamente all’aspettativa.
–    mantenere una coerenza con la storia biografica: se il soggetto malato non ha mai dimostrato interesse verso una certa attività, è assurdo presentargliela nella sua nuova condizione di vita e pretendere che la svolga in forma partecipata.
–    manifestare forme di apprezzamento per l’azione compiuta: nonostante gli esiti possano essere non soddisfacenti, ringraziare e lodare l’impegno poiché questo atteggiamento rinforzerà benessere e autostima nella persona, restituendole fiducia e soddisfacimento di quei bisogni psicologici che fanno parte di ognuno di noi (attaccamento, riconoscimento, senso di appartenenza, autorealizzazione).
–    allestire un ambiente facilitante per compensare i deficit di orientamento: lo spazio di vita del malato deve essere adattato per mantenere il più a lungo possibile la sua autonomia attraverso stimoli che aiutino il suo movimento ed eliminando tutto ciò che può arrecargli danno o pericolo.
Queste indicazioni generali ci inducono a riconsiderare lo stereotipo da cui eravamo partiti e a cercare di immaginare nuove forme di normalità per vivere il tempo con chi non ne riconosce più la misura.
Tutti concordiamo sul fatto che lo svolgere un’attività o conservare un impegno è positivo per ogni essere umano, se scelti sulla base delle proprie capacità e interessi.
Anche per la persona malata vale questo principio a condizione che le occupazioni selezionate – che possono essere veramente molteplici – siano di non eccessiva durata, utili, semplici, conosciute e, soprattutto, non stressanti.
La regola principale è che le cose si facciano insieme, e non su comando. Attività del quotidiano e passatempi mantengono così il senso che si è dato loro durante tutta l’esistenza, pur modificandosi nei tempi e nei modi di esecuzione.
Ecco quindi che per le persone di sesso femminile sarà utile orientare le proposte verso piccoli lavori legati alla gestione della casa e delle faccende domestiche: apparecchiare la tavola, spolverare, pelare le patate, sbucciare la frutta per la preparazione della macedonia, sistemare i cassetti piegando fazzoletti, mutande, calzini, asciugamani, stendere e ritirare la biancheria, asciugare e riporre le posate. Queste mansioni condotte nella quotidianità possono fare sentire ancora la malata all’altezza della situazione e utile per la conduzione della casa.
Per i malati di sesso maschile, invece, si può tenere conto della loro professione o dei loro hobby: piccoli compiti di bricolage, bagnare l’orto, sistemare libri sugli scaffali, ordinare bollette o documenti, ritagliare immagini, segnare sul calendario appuntamenti o ricorrenze. Naturalmente non vanno scordate le attività di divertimento e ludiche: giocare a carte, ballare, cantare ritornelli di canzoni note, fare acquisti, mangiare una pizza, divertirsi con i nipotini, passeggiare nel verde.
La reazione più tipica del caregiver è: “Ma sbaglia tutto, non lo sa fare più!”.
Non importa il risultato. Ai fini del benessere del nostro assistito vale più la sua soddisfazione di aver contribuito all’ordine domestico piuttosto che la bontà effettiva di quanto prodotto. Forma ed esteriorità diventano problemi di chi assiste, non certo del malato. Anzi, nel ringraziarlo per l’aiuto ricevuto, saranno ridotte le possibilità di frustrazione e di rabbia.
Una volta accettato l’altro per quello che può ancora dare e accantonata l’idea che il “fare” sia una produzione, sarà giunto il momento di scoprire quante siano le cose che con l’altro possono ancora accadere e come questo comporti significazione del suo esserci, nonostante tutto.

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