Silenzio e lentezza: nuovi valori del nostro tempo?

Scritto da Paolo Ferrario il 22-02-2011

Non ci sono dubbi: viviamo in ambienti carichi di rumore e trascorriamo le nostre giornate spinti dal bisogno di velocità. Può quindi sembrare strano che, nonostante tale situazione, si moltiplichino tendenze del tutto opposte, come il ritorno della Giornata mondiale della lentezza, il prossimo 28 febbraio, e la nascita, qualche mese fa, dell’Accademia del Silenzio, legata strettamente all’esperienza della Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari, che nelle prossime settimane lancerà il proprio progetto a Milano e a Torino. E la trasformazione culturale è segnalata anche da alcuni blog, che diventano sempre più indicatori di cambiamento: Turismo lento e siti amici come Ascoltare il silenzio.
Nel continuare le nostre argomentazioni attorno a quella fase del ciclo della vita che chiamiamo prevecchiaia, può essere di estremo interesse contrapporre (per approfondire) i significati delle parole chiave “silenzio-rumore” e “lentezza-rapidità”.
La continua crescita dei suoni, tipica del mondo moderno, ha prodotto una modificazione del significato stesso del termine “rumore”, che assume una varietà di sfumature: suono non desiderato; suono non musicale; suoni di forte intensità; disturbi interni ai sistemi di comunicazione. Di queste quattro definizioni principali, forse la più soddisfacente è la prima, dove il termine rumore (noise) diventa estremamente soggettivo, essendo il suono per una persona musica e per un’altra frastuono.
La situazione è talmente paradossale che nelle nostre società l’estensione dei suoni (e dei rumori) intossica così tanto gli ambienti della vita quotidiana che ci sono compositori che si sono dedicati a fare musica attraverso il silenzio. Il nome che viene subito alla mente è quello di Anton Webern (1883-1945),
che conduce le sue composizioni al limite del silenzio, fino a produrre una musica estatica, intensificata da un uso sublime e sbalorditivo delle pause. Dicono che la musica di Webern sia composta “con una gomma da cancellare”, tanto procede per riduzioni progressive.
Senza arrivare a queste vette stilistiche, la cui estetica è molto controversa, si può dire che l’obiettivo di valorizzare il silenzio corrisponde perfettamente alle esigenze del nostro tempo, proprio in quanto esso è un periodo sospeso, di attesa, di fase in cui aspettiamo che succeda qualcosa, qualunque cosa. Dunque il silenzio ci serve in quanto tale, non solo perché ne abbiamo voglia, ma anche perché ci consente di sentire, di metterci in ascolto.
Silentium” deriva dal latino “silere” nel significato di tacere, non fare rumore. Fin dalla sua etimologia, pertanto, al silenzio è attribuito il valore di ciò che deriva per sottrazione dal rumore o dal suono. E qui incontriamo subito un problema di noi moderni: i luoghi del silenzio tendono ad essere sempre più scarsi. l’architettura moderna è quasi incapace di progettare spazi che possano svolgere questa funzione.
All’opposto, nel passato, esistevano santuari, giardini, edifici, chiostri, dove chiunque poteva rinchiudersi per rimettere ordine nella propria psiche. Questi luoghi si trovavano sul limitare delle foreste o in località di montagna piene di neve: lì si poteva alzare gli occhi verso le stelle, osservare il volo silenzioso degli uccelli e trovare momenti di pace.
In un certo senso, questa è una condizione del nostro tempo davvero drammatica, anche perché così come sonno e riposo servono per riattivare le nostre energie vitali, momenti di calma e silenzio sarebbero altrettanto indispensabili per ritrovare il riposo dell’animo.
La quiete nel tempo passato era elemento prezioso del codice non scritto dei diritti dell’uomo. Oggi non è più così. E poiché è del tutto impossibile ritornare a quel periodo, un’interessante possibilità, che invece ci è data, è quella di ricercare nuovi valori del silenzio all’interno della quotidianità che ci appartiene. Qui la responsabilità è solo nostra: sta a noi ricercare.
Una prima osservazione è che il silenzio aiuta la conversazione umana: senza pause, nessun dialogo è possibile. Per parlare in due occorre fermarsi e “darsi la parola”: l’ascolto richiede molta attenzione e interiorità creativa, proprio per far nascere dentro di noi quegli spazi di accoglienza nei quali le parole dell’altro possono trovare rifugio.
Il silenzio non è quindi assenza di comunicazione, ma all’opposto può rappresentare una nuova possibilità per espanderla. Vogliamo dire che si impara a comunicare anche tacendo e certamente questo non è facile, essendo noi più abituati a parlare che ad ascoltare. Non è un ragionamento semplicistico: “darsi tempo” e “fare pause di silenzio” sono due grandi lussi della società contemporanea, come afferma Nicoletta Polla-Mattiot, fondatrice con Duccio Demetrio della già citata Accademia del Silenzio e anche animatrice del Festival del Silenzio.
Una seconda osservazione riguarda la produttiva alleanza che possiamo costruire fra il silenzio e la lentezza. La velocità e i carichi costrittivi cui ci obbliga il tempo del lavoro e cui noi aggiungiamo altre quantità di azioni e comportamenti del tempo libero, sconvolgono il nostro ritmo di vita e alla fine producono una perdita secca per le nostre psicologie. “Bisogna proteggersi dalle accelerazioni“, dice Pierre Sansot, nel suo bellissimo libro Sul buon uso della lentezza (1998) e ritrovare i piaceri che si legano alla lentezza e al gustare tranquillamente le piccole cose. Alcuni comportamenti che l’autore descrive sono di grande concretezza: andare a spasso (prendere tempo, lasciarsi guidare dai propri passi, fermarsi a osservare un paesaggio); ascoltare (rendersi disponibili a quanto gli altri dicono, prestando loro attenzione); “annoiarsi” (non inteso come l’amore del nulla, ma come la capacità di accettare e apprezzare anche ciò che si ripete); usare moderazione (nel senso di pesare con attenzione i propri atteggiamenti e forme di comunicazione).
E’ del tutto evidente che questa concezione della lentezza si avvicina parecchio a quel classico della letteratura che è la “leggerezza” mirabilmente descritta da Italo Calvino nelle Lezioni Americane, soprattutto quando sostiene che: “la funzione esistenziale della letteratura è esprimere una ricerca della leggerezza come reazione al peso di vivere”.
Attraverso le due parole-chiave si intravvede un vero e proprio progetto di cambiamento socio-culturale: fare silenzio significa prendere per se stessi pause rallentate e scoprire ritmi diversi nel proprio uso del tempo. Naturalmente non dobbiamo esagerare in ottimismo. La condizione odierna del lavoro frammentato rende molto arduo praticare questi sentieri. Tuttavia è anche vero che la condizione anziana, e in particolare la vecchiaia attiva, offre invece tutto lo spazio esistenziale per farlo.
l’altro eccesso di ottimismo consisterebbe nel rimuovere volti del silenzio piuttosto minacciosi: quelli dell’incomunicabilità, dell’isolamento, dell’attesa della fine.
Ci troviamo qui nei campi minati delle patologie, poiché il silenzio del non detto, dell’inespresso, del tenuto nascosto può condurre a inquietudini opprimenti e paralizzanti.
E’ quello che, per esempio, viene raccontato in alcuni quadri di Edward Hopper (nell’immagine a destra, un suo autoritratto),
artista della solitudine e dell’alienazione, dove le persone con lo sguardo rivolto al vuoto sembrano imprigionate in un tempo sempre più bloccato.
Osserviamo Sera a Cape Code: qui una donna guarda il marito che tenta di attirare l’attenzione del cane che guarda altrove.
In proposito il grande poeta Mark Strand commenta “ciò che in un primo momento pareva il ritratto di una calma irrilevante è minato dall’incombente dissoluzione delle strutture in cui i personaggi vivono”. Oppure guardiamo Stanza a New York: una coppia è seduta in salotto. Lui chino sul giornale, lei con gli occhi sui tasti del pianoforte. Osserva ancora Mark Strand: “Ma sono davvero a proprio agio? l’uomo è concentrato sulla lettura, ma la donna non è concentrata sul pianoforte. Lei sta facendo passare il tempo, presumibilmente in attesa che il marito finisca di leggere il giornale”.
Dopo questi avvertimenti, torniamo alla visione positiva, proponendoci l’esplorazione di alcuni “esercizi” esistenziali del silenzio. Proviamo almeno ogni tanto a “darci tempo”: parlare a lungo con un amico; leggere insieme un libro ad alta voce; leggere un romanzo durante il giorno; riscrivere qualche riga di un libro; scrivere un diario; andare allo scaffale della “farmacia della musica” e ascoltare un pezzo di Chet Baker, di Arvo Part, Jack de Johnnette, Stephan Micus o qualsiasi altro genere di musica che apra spazi verso mondi alternativi.
Un altro esercizio potrebbe essere dedicato alla visione del film Il grande silenzio che Philip Groning nel 2006 ha girato nel monastero alpino della Grande Certosa, un lungo racconto tutto immerso in un silenzio ‘bianco’ che “riassume in sé ogni parola che conta, a differenza del silenzio ‘nero’ che è mera assenza di suoni e voci, vuoto e sgomento” (Gianfranco Ravasi, in Le parole e i giorni).
Un ulteriore modo potrebbe essere quello di provare ad emozionarsi con i silenzi abissali delle sculture subacquee di Jason deCaires-Taylor.
Ma, infine, potremmo tornare alla nostra adolescenza e riscoprire ancora una volta la vertigine dell’Infinito di Giacomo Leopardi che, come ci insegna il già citato Calvino, “nel suo ininterrotto ragionamento sull’insostenibile peso del vivere, dà alla felicità irraggiungibile immagini di leggerezza”.
Se poi il fatto di non essere più capaci di compiere quelle operazioni ci impedisce di godere appieno anche di uno solo degli esercizi proposti, proviamo a concederci un piccolo spazio contemplativo alzandoci dal tavolo del computer e andando alla finestra per guardare fuori, concentrandoci in uno o due minuti di completa e totale inattività.

Vuoi lasciare un commento? Clicca qui

Leave a Reply

Your email address will not be published.