La comunicazione non verbale nelle relazioni di aiuto

Scritto da Luciana Quaia il 18-04-2012

Viviamo in un mondo dominato dalla comunicazione virtuale: televisione, radio, telefono cellulare, applicazioni informatiche, Internet…, ne siamo talmente immersi e circondati  da correre il rischio di dimenticare che noi stessi siamo comunicazione, strumento privilegiato di scambio che ci permette di entrare in contatto con l’altro, crescere e costruire senso di identità.
In questo articolo prenderemo in considerazione alcune forme della comunicazione non verbale, che è possibile riscontrare nei reali rapporti faccia a faccia fra gli individui..
Noi siamo “persone” perché siamo sopra tutto “relazione” e questo essere relazione diventa particolarmente cruciale in situazioni di difficoltà, quando il soggetto con cui siamo in contatto è in determinate condizioni di malattia che rendono auspicabili, se non obbligatori, atteggiamenti di cura.
Il termine aiutare trova la sua matrice etimologica nel latino adiuvare, recare giovamento, pertanto una relazione di aiuto sottintende un rapporto tra una persona che sta attraversando un momento di bisogno e un’altra che le presta soccorso. La persona che riveste il ruolo più forte (chi aiuta) ha il compito di agevolare la comunicazione con la persona più debole (chi richiede aiuto).
A parole o a gesti, parlando o guardando, con facilità o con esitazione, sempre si comunica. E’ attraverso l’atto comunicativo che la persona percepisce, vive e sperimenta se stessa in rapporto ai propri simili.
Paul Watzlawick (1921-2007),
padre della comunicazione sistemica moderna, così esprime uno dei principali fondamenti del suo modello: “Non si può non comunicare“.
Abitualmente, quando pensiamo alla comunicazione, la nostra attenzione si focalizza sul linguaggio: le parole vengono organizzate in frasi secondo regole grammaticali ben precise, le frasi formano il discorso e questo è a sua volta organizzato secondo le intenzioni e le capacità verbali di chi parla.
Pur tuttavia se una persona decide di stare in silenzio, ugualmente continuerà a trasmettere messaggi su sé stessa attraverso la postura del corpo, l’espressione ed il modo di gesticolare, l’intonazione e il volume della voce, elementi che forniranno in chi ascolta infinite indicazioni su chi gli sta parlando.
Questa considerazione ci porta ad un altro fra i principi del modello comunicativo di Watzlawick, ovvero che ogni comunicazione contiene un aspetto di contenuto (messaggio verbale costruito con le parole) e uno di relazione (costituito dal linguaggio del corpo, ovvero non verbale). Per semplificare: la comunicazione verbale è attenta al che cosa si dice, mentre quella non verbale è attenta al come questo qualcosa viene detto.
Al lettore sarà sicuramente successo almeno una volta di aver considerato: “Non importa quello che mi ha detto, è stato il modo con cui l’ha fatto che mi ha ferito!”. Infatti i segni con cui si esprime il linguaggio non verbale diventano più importanti del contenuto delle parole e vengono immediatamente percepiti veritieri dall’ascoltatore, soprattutto quando non esiste coerenza fra messaggio corporeo e verbale: “A parole mi diceva sì, ma dallo sguardo ho capito perfettamente che era una presa in giro”.
La comunicazione non verbale, dunque, ha fra le sue principali funzioni quella di esprimere le emozioni, permettendo quindi di comunicare atteggiamenti interpersonali suscitati dalla relazione con l’altro. Paul Ekmann sostiene che le emozioni fondamentali dell’essere umano si presentano in modo inconfondibile a livello della mimica facciale (area frontale, sopracciglia, sguardo, sorriso),
a livello motorio (cambiamento della postura e gestualità automatiche quali battere i piedi, tamburellare le dita) e delle caratteristiche della voce (volume, velocità, uso di pause).
Inoltre è sicuramente efficace per accompagnare e sostenere il discorso che si sta facendo, poiché quando si parla si assumono configurazioni facciali particolari e si fanno gesti che possono amplificare o rendere ambigue le parole che si stanno pronunciando.
Tutti questi elementi, di per sé già fondamentali, acquisiscono maggior valore nel contatto con una persona che sta attraversando, in qualsiasi età della vita, un momento, una fase o un periodo di dipendenza da altrui cure.
Per esempio, una possibile situazione di crisi può essere l’unità di cura intensiva, dove il malato è collegato ad apparecchiature complesse sotto stretta sorveglianza. La ventilazione artificiale gli impedisce di parlare e la dipendenza da segnali non verbali, quali l’intonazione della voce e il contatto fisico, è il mezzo migliore per fargli percepire che qualcuno è lì accanto per prendersi cura di lui.
A tale proposito, il pastore anglicano Norman Autton, nel suo testo “Parlare non basta”, scrive: “Il contatto fisico può mostrare empatia in ogni situazione in cui è difficile esprimere i propri pensieri e sentimenti verbalmente”. l’autore continua spiegando che la necessità del “toccare” è stata finalmente riconosciuta anche nel mondo della medicina: bambini prematuri, malati segregati in ambienti tecnologici e impersonali, morenti toccati con affetto reagiscono a questo tipo di contatto più che alla somministrazione di farmaci.
Un contatto fisico può inoltre dire assai di più che tante parole nei casi in cui una persona è depressa e non riesce a reagire a una comunicazione verbale, o ha bisogno di un incoraggiamento davanti a una prova difficile o necessita di accudimento perché disorientata.
Ci sono inoltre situazioni in cui sono assenti gravi patologie, ma, più semplicemente, dove mutamenti fisiologici e comportamentali fanno parte del progredire dell’età, causando riduzione delle facoltà sensoriali e difficoltà di movimento che rendono l’anziano esposto al rischio di solitudine e isolamento.
Anche in questi casi risultano molto più efficaci e affettive modalità di “stare accanto” che privilegino la comunicazione del corpo piuttosto che quella delle parole.
Di questo se ne deve tener conto quando, stimolati dalla fretta, le azioni prevalgono sulle relazioni. Sono invece assai più utili di ricercate terapie atteggiamenti che dimostrino considerazione, rispetto, riconoscimento e accettazione della condizione che è toccata al destino dell’altro di cui ci si occupa.
Attenzione quindi al comportamento visivo e alla mimica facciale: il contatto visivo, lo sguardo, il sorriso, la risata.
Guardare o non guardare negli occhi una persona trasmette un messaggio dotato di molta forza, in quanto rivela l’interesse che proviamo nei suoi confronti,  così come lo sguardo serve a regolare il rapporto di vicinanza o distanza con l’interlocutore, in quanto il contatto visivo reciproco contribuisce a creare un rapporto di intimità. 
Il sorriso, come la risata, può essere considerato come espressione di gioia e felicità che contiene tonalità affettiva. Annuire con la testa alle parole dell’assistito dà segnale di assenso, ma anche di  incoraggiamento e comprensione, di intimità e vicinanza affettuosa.
Pure l’accompagnare i propri discorsi con gesti che si riferiscono al parlato aumenta e migliora l’espressività e il significato.
Non di minor importanza è il movimento del corpo.
La postura riguarda le diverse posizioni assunte dal corpo durante l’interazione e fornisce importanti informazioni sulla qualità dell’interazione stessa. Una postura ravvicinata indica attenzione, diversamente da quella ritirata che si interpreta come freddezza o rifiuto.
Nei casi in cui la relazione di aiuto implica un contatto corporeo, è bene ricordare che il tipo di contatto cambia man mano che aumenta il grado di intimità fra le persone coinvolte. l’antropologo americano Edward T.Hall (1914-2009) ha individuato quattro tipi di distanza: personale, sociale e pubblica che riguardano le distanze accettabili, mentre quella intima (misurata da 0 a 30-40 centimetri) include forme di contatto che possono essere percepite come un’invasione del territorio intimo che ogni individuo possiede. Manifestazioni quali abbracciare, baciare, accarezzare, stringere affettuosamente possono essere di grande aiuto per un malato che chiede sostegno, ma altri tipi di contatto più finalizzati a manovre corporee (igiene intima, cambio abiti) possono anche ledere il senso di pudore della persona coinvolta.
Il nostro mondo soggettivo e privato è denso di linee di confine che esigono riconoscimento e rispetto da parte degli altri.
c’è infine da considerare l’ulteriore modalità della comunicazione paraverbale, relativa alle caratteristiche sonore possedute dalla voce. Abbiamo già detto che parole e frasi assumono significati ben differenti a seconda del modo con cui vengono pronunciate. E’ pertanto consigliabile adottare un volume moderato (salvo i casi di ipoacusia) e una velocità non troppo sostenuta nel parlare, per evitare di stordire chi ascolta.
Parlare senza parole e ascoltare con gli occhi sono dunque le chiavi che, al di là del linguaggio, ci permettono di entrare nel mondo di chi ci è prossimo e soffre.
Ma questo tipo di comunicazione non è utile solo per chi richiede la nostra vicinanza.
E’ soprattutto utile per sé stessi  perchè offre uno specchio in cui guardarsi e conoscere chi siamo quando entriamo in contatto con la malattia

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