I consumi nella crisi: ricominciare dalla terra

Scritto da Paolo Ferrario il 21-06-2012

In questo periodo storico sembra esserci una relazione tra la “scienza triste” che è l’economia e il malessere psichico. La crisi che attanaglia le società europee, e quindi l’Italia, crea una quotidiana preoccupazione sul futuro che ci induce a colorare con tinte fosche e pessimiste il tempo presente. Questo avviene proprio perché oggi gli italiani si accorgono che sono le abitudini consolidate a essere messe in discussione. E, infatti, la parola “crisi” deriva dal greco “Krìsis”, nel significato di “separazione, scelta”.
In quest’articolo prenderemo in esame qualche aspetto dei mutamenti delle condizioni di vita alla luce del “disordine” economico che è in atto.
La generazione dei post – sessantenni (che in Muoversi insieme abbiamo chiamato della “prevecchiaia“) nel suo ciclo di vita ha attraversato rilevanti fasi di cambiamento della propria quotidianità. In un accuratissimo studio Giovanni Vecchi rende conto di tutti gli indicatori essenziali che misurano l’aumento di benessere che si è manifestato lungo la storia d’Italia: nutrizione, statura, salute, lavoro minorile, istruzione, reddito, disuguaglianze, povertà, vulnerabilità, bilanci familiari, costo della vita. La popolazione italiana sperimentò sofferenze straordinarie durante la seconda guerra mondiale, quando la disponibilità calorica scese a 1.884 calorie. Superata la guerra, ci fu una corsa rapidissima verso i consumi attuali, che sono diventati addirittura eccessivi (di fronte ad un fabbisogno di 1.962 calorie ne disponiamo oggi 3.657). Afferma Giovanni Vecchi: “in termini di calorie disponibili gli italiani sono oggi secondi soltanto agli statunitensi: dispongono di circa il trenta per cento in più delle calorie giapponesi, e registrano livelli superiori a tedeschi, francesi, spagnoli, inglesi e svedesi”. Dunque, almeno in questo, siamo molto europei!
Nel primo dopoguerra, con le città distrutte, i risparmi bruciati, una rivoluzione industriale all’avvio, era chiaro cosa si dovesse fare: ricostruire, produrre, concorrere sui mercati internazionali. Quello che al mondo apparve come il «miracolo italiano» nacque come risposta individuale e collettiva a uno scenario di terribile povertà, di bisogni essenziali insoddisfatti e, insieme, di enormi opportunità da cogliere e valorizzare.
Un altro indicatore storico del benessere ottenuto è quello del progressivo miglioramento della salute. l’Italia è uno fra i paesi al mondo in cui si vive di più: è al quarto posto dopo Giappone, Svizzera, Australia. La speranza di vita alla nascita (ossia il numero di anni che un individuo può aspettarsi mediamente di vivere) è attualmente, per un nuovo nato, di 82 anni per gli uomini e 85 per le donne. Occorre considerare che i bambini del Regno d’Italia, nel 1861, avevano una speranza di vita che non superava i 29/30 anni.
I dati mostrano che dall’Unità a oggi il reddito degli italiani è aumentato di tredici volte e, nel secondo dopoguerra il Prodotto Interno Lordo procapite si è moltiplicato di oltre sette volte.
Certamente, in questi trend permangono arretratezze e disuguaglianze, ma la tendenza complessiva è evidente: l’italiano medio è diventato benestante, per non usare il termine “ricco”. Nonostante questi numeri parlino di un constatabile miglioramento dello stato di benessere, il messaggio trasmesso ogni giorno dai mass media è questo: si può peggiorare e finire in un baratro ingovernabile. In questo quadro di incertezza spicca il dato dell’enorme percentuale di popolazione giovanile che staziona fra famiglia e scuola, trascinando stancamente studi che non completa, senza contemporaneamente darsi nessuna seria competenze lavorativa o professionale: quello che un tempo si chiamava “il mestiere”. La questione culturale di fondo è che c’è stata una svalorizzazione del lavoro manuale: nello stesso arco di tempo in cui calava l’occupazione giovanile, l’Italia (che non è un paese a forte struttura produttiva come la Germania) assorbiva nel mercato del lavoro milioni di immigrati e loro famiglie. Una ricerca dell’Ufficio studi Confartigianato mostra un gruppo di professioni a vocazione artigianale con trend in aumento di domanda di lavoro: cuochi, installatori, pavimentatori, sarti, falegnami, spedizionieri, ecc. Chi fosse capace di fare antichi mestieri, mettendo assieme manualità e nuove tecnologie, avrebbe opportunità occupazionali, come l’esperienza dei gelatai Grom dimostra. Mentre in Inghilterra, Spagna e Scandinavia il 50% degli studenti sceglie una formazione tecnica, da noi non si arriva neppure al 40%. E, invece, le industrie, il commercio, e i servizi hanno soprattutto bisogno di tecnici, di esperti in manutenzione.
E’ questa una situazione individuale e sociale che ha modificato il rapporto fra le generazioni e le biografie delle persone. Nel passato lo spartiacque del trentacinquesimo anno divideva la vita in due parti: quella in cui sono i padri che aiutano i figli e la seconda, in cui accade il contrario. Con lo sviluppo del Welfare State la famiglia è stata scaricata da molte incombenze, ma la crisi finanziaria mostra come le prestazioni dello stato sociale non sono sufficienti a rispondere ai bisogni, tanto che si devono andare a riscoprire i valori e l’utilità pratica della solidarietà intra-familiare.
Le resistenze dell’Italia ad accettare lo scenario di austerità imposto dalla crisi sono probabilmente dovute alla velocità con cui si è manifestata e all’indubitabile causa che l’ha provocata (la speculazione finanziaria delle banche mondiali). Forse la ricchezza e il benessere italiano sono troppo recenti per lasciar spazio senza difficoltà a una necessaria visione più austera delle abitudini acquisite. Enzo Bianchi fornisce una spiegazione alquanto plausibile: “la mia generazione è stata educata a fare sacrifici: privarci di alcune cose, rinunciare ad altre, accontentarci di quello che c’era… Del resto, negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui molti vivevano in condizione di fame e miseria, fare sacrifici per molti non era un’opzione, ma la condizione toccata loro in sorte. Ma quell’invito ossessionante alla privazione creò di fatto una reazione di rigetto: nessuno volle più sentir parlare di sacrifici, né tanto meno continuare a farli, soprattutto nell’ora del boom economico”.
E che ci sia una specificità dell’Italia e degli italiani nel reagire, lo dimostra qualche dato comparativo. La Svizzera sa mettere in atto capacità di resistere bene ai venti contrari del quadro internazionale e alle turbolenze dei mercati: una crescita del prodotto interno lordo pari a +0,7% rispetto al trimestre precedente è un buon risultato nel quadro economico attuale. Occorre ricordare, per quel che riguarda i vicini, che la pur robusta Germania ha realizzato rispettivamente un +0,5%, la Francia 0,0% e l’Italia -0,8%.
Viviamo dunque in tempi incerti, nei quali perfino le diagnosi socioeconomiche sono molto contraddittorie fra loro e vacillano in forza interpretativa.
Nel frattempo, mentre il quadro macroeconomico oscilla fra ondate di pessimismo e deboli segnali opposti, stanno cambiando le abitudini di consumo. Secondo l’Ismea, tra il 2001 e il 2011 la domanda di carne bovina ha subito un calo dell’8%, una contrazione che ha innescato un aumento dei consumi di formaggi (+15%),
carne suina (+7%) e carne avicola (+3%). Mario Calabresi ha osservato e scritto di alcuni micro cambiamenti: più colazione a casa che al bar; più hamburger che fettine; acquisto dei tagli meno pregiati della carne; tenuta e crescita della verdura (che va a sostituire altre portate di cibo); ricerca di prodotti locali a filiera corta; recupero della capacità di recuperare gli avanzi e reinventare ricette. E sono in atto anche concrete esperienze che rivelano i percorsi possibili: giovani laureati che riscoprono il lavoro dei campi; i progetti delle City Farm di Chicago; i Mercati della Terra della rete Slow Food promossa da Carlo Petrini.
Forse questi sono gesti e progetti che parlano di un processo di adattamento in corso e che sembrerebbero confermare la suggestiva proposta dell’antropologo ed economista Serge Latouche. Questo studioso (molto criticato dagli “sviluppisti”, che sostengono che si esce dalla crisi con “più crescita”) nella sua relazione “I nostri figli ci accuseranno?” al recente Festival dell’economia di Trento ha riproposto una variante della politica economica di decrescita, che ora chiama per un’abbondanza frugale: “se non ci diamo dei limiti, non potremo mai essere soddisfatti, e invece nella società dei consumi si deve sempre avere e consumare sempre di più”.
Utopia o realismo fondato sull’analisi di come è stata ridotta la terra dalla civiltà che non ne ha preso in considerazione limiti e finitezza?
Gli over 60 hanno ancora una ventina d’anni per verificare cosa succederà. Mentre le giovani generazioni avranno l’arduo compito di fare manutenzione a un ambiente troppo manomesso dal tipo di sviluppo dei secoli passati.
Di una cosa c’è certezza: occorre ripartire dalla terra.

Bibliografia
Giovanni Vecchi, In ricchezza e in povertà: il benessere degli italiani dall’Unità a oggi, Il Mulino, 2011
Istat, Rapporto annuale 2012
Mauro Calabresi, Un paese che cambia abitudini, in La Stampa, 4 giugno 2012
Enzo Bianchi, Sacrifici, segnali d’amore, in La Stampa, 11 dicembre 2011
Serge Latouche, Per un’abbondanza frugale, Bollati Boringhieri, 2012

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