Cinema e biografie: come funziona una buona storia?

Scritto da Paolo Ferrario il 21-04-2010

E’ arrivata la primavera e l’estate è sempre più vicina. In questo arco di tempo, non si manifesta solo una trasformazione meteorologica: è come se al rinnovamento della natura si accostassero anche altri rinnovamenti che riguardano le nostre psicologie e il nostro modo di stare nel mondo. Anche la cultura si rimette in movimento: qualche settimana dopo le bellissime Giornate di primavera del Fondo italiano per l’ambiente, anche il cinema sembra risvegliarsi. A inizio maggio si apre infatti il Festival di Cannes e nelle settimane immediatamente successive ci saranno centinaia di manifestazioni, rassegne, premi fino ad arrivare alla 67° Mostra internazionale d’Arte cinematografica di Venezia che, quasi come in un rituale collettivo, conclude questo ciclo stagionale.
Viene spontaneo domandarsi: perché così tante persone – giovani, adulti, anziani – sono attratte dall’espressione artistica rappresentata nel film? Credo che una possibile spiegazione sia da cercare nel fatto che, come si diceva in un articolo precedente, ci piace partecipare alle storie, ai racconti di vita. Probabilmente questo avviene perché non ci basta la nostra concreta, unica e personalissima biografia. Abbiamo bisogno, per sentirci parte del mondo, di entrare in contatto con altre vite. Come se queste storie, che appartengono ad altri, in realtà siano anche un po’ la nostra storia.
E’ su questo filo interpretativo che vorrei intrattenere l’attenzione del lettore.
La questione di fondo mi sembra la seguente: attraverso un racconto che si dipana su uno schermo, viene messa in gioco e visualizzata la nostra stessa identità. Mi faccio aiutare da un grande antropologo culturale, Carlo Tullio-Altan, il quale, con rigoroso metodo scientifico, sostiene che gli elementi fondamentali capaci di tenere assieme l’individuo alla sua società sono: a) l’Epos, inteso come la capacità di elaborare la memoria storica e collegarla al passato, al presente e al futuro; b) l’Ethos, ossia lo sviluppo di norme e regole atte a creare socialità tra le persone; c) il Logos, attraverso il quale si realizza la comunicazione sociale; d) il Genos, ovvero la dinamica dei rapporti familiari orientati a trasmettere valori fra le generazioni; e) il Topos, che fa riferimento a un territorio vissuto come valore e come fonte di affetti e di piacere estetico.
Può sembrare una classificazione complessa e tuttavia essa agisce effettivamente all’interno delle storie e spesso è in grado di contrassegnare quello che è un buon racconto da uno che non riesce ad esserlo.
Cominciamo con l’Epos. Qui il riferimento spontaneo e immediato va al capolavoro di Ermanno Olmi l’albero degli zoccoli (1978).
E’ un film essenzialmente legato alla terra contadina, nel quale si possono seguire i ritmi delle stagioni, gioire per la sagra di primavera, per le giostre, le bancarelle, i burattini, l’albero della cuccagna. Qui, quando accade qualcosa a qualcuno nella cascina, è come se accadesse a tutti. Comprendiamolo usando le stesse parole di Olmi: “Ho dato corso a questa mia segreta riserva di ricordi e, più passavano gli anni, più mi pareva importante metterli a confronto con il presente”.
Attraverso lo sguardo innocente di un bambino, Olmi riesce a raccontare la sua visione del mondo e dei rapporti sociali anche come persona adulta e matura. E’ per questo che l’albero degli zoccoli ci piace sempre, anche se parla di una realtà agricola e noi viviamo in un mondo industrializzato e globalizzato: perché lì, ad essere messa in scena, è la storia soggettivamente vissuta.
Proseguiamo con l’Ethos. Nel film Lars e una ragazza tutta sua di Craig Gillespie (2007) il giovane protagonista presenta a un’attonita famiglia e ai cittadini del paese una bambola di gomma, come se fosse la sua fidanzata viva e reale. In questo caso, la forza del film sta nel fatto che la comunità locale non respinge un comportamento così strano e deviante, ma se ne fa carico partecipando attivamente alle vicissitudini di questo rapporto. La cosa interessante è che tutti i ruoli sociali svolgono questa funzione: il medico, il prete, i negozianti, i volontari. Cosa ci dice il film? Ci racconta una parte di verità, e cioè che una comunità può farsi sostegno se qualcuno al suo interno si assume la responsabilità professionale o parentale di accogliere la diversità. In tal modo il ragazzo stesso prenderà distanza, attraverso un percorso individuale, dalla sua fissazione.
Per quanto riguarda il Logos, nel film è spesso rappresentato attraverso le intense forme di comunicazione che i protagonisti intrattengono fra loro. In Motel Woodstock di Ang Lee (2009),
un giovane ebreo americano deve tentare di salvare l’albergo di famiglia dal fallimento, e per farlo organizza un colossale concerto che reitera nel piccolo paese la grande manifestazione musicale che fece storia alla fine degli anni Sessanta.
Il ragazzo deve continuamente convincere famiglia e vicinato e nel farlo promuove una propria autocura, che diventa anche cura collettiva e addirittura arriverà a trasformare un angariato padre che finalmente riderà e ballerà pronunciando questa memorabile frase: “Magari domani morirò … ma ora sono vivo!”.
Nel Genos, invece, si tratta di ristrutturare dinamiche familiari magari cristallizzate e ossificate e farle funzionare in un modo del tutto diverso e dunque anche trasformativo. Nel film La famiglia Savage di Tamara Jenkins (2007) la demenza senile del padre costringe un fratello e una sorella (abbandonati da lui nel passato) a occuparsi concretamente di questo problema, misurandosi con le diverse aspettative e i diversi stili di gestione. l’evento produce paradossalmente una rottura degli equilibri intrapersonali e interpersonali che, invece di sfociare in dramma, ricostruisce il destino dei due fratelli. Qui la famiglia è lucidamente presentata per quello che è: un vincolo, ma anche una opportunità. Solo attraversando coscientemente e con partecipazione affettiva una crisi, se ne può venire fuori.
Infine, il Topos. Attraverso questa dimensione entra in campo la potenza evocativa del luogo. In fondo, il film usa innanzi tutto uno spazio attraverso il quale le situazioni si svolgono nella loro trama e intreccio. l’immaginazione in questo momento va al bellissimo Voci nel tempo di Franco Piavoli (1996),
dove è la natura a fare da protagonista, anche se essa è costantemente attraversata e abitata da voci, parole, bambini, persone anziane.  Ma viene anche da pensare a Elzéar Bouffier, il personaggio di Jean Giono messo in scena da Frederick Back nel film d’animazione l’uomo che piantava gli alberi premiato con un Oscar nel 1987. Qui l’ambiente è la montagna arida, battuta dal vento, desolata e di difficile coltura.
Eppure Elzéar ha consacrato la propria vita a piantare silenziosamente e metodicamente alberi su alture dove da decenni non cresceva nulla. Grazie alla sua opera, quando i nuovi alberi saranno cresciuti, l’acqua riprenderà a scorrere dalle sorgenti inaridite e gli animali e gli esseri umani torneranno a popolare la zona.
Dunque non è impossibile cambiare il mondo, assumendosi individualmente una propria responsabilità, indipendentemente dai riconoscimenti sociali.
Quali parziali conclusioni possiamo trarre dall’aver accostato quei pilastri fondamentali che costruiscono il rapporto fra individuo e società alle concrete storie che ci raccontano i film?
Forse che fin dalla notte dei tempi e quindi prima della stessa creazione del cinema, noi abbiamo spiegato il mondo per mezzo di storie, dunque esse non sono illusioni inutili, ossia immagini che si proiettano sullo schermo. Una storia è quasi sempre la messa in moto di un problema esistenziale e contemporaneamente un mezzo affascinante a nostra disposizione per affrontare i dilemmi che assorbono le nostre singole vite.

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